“Aprirsi al mondo”:intervista al vincitore del Premio Michetti Giovani 2024 Danilo Sciorilli

di Melania Zizi

Foto di Davide D'Ambra

Vincitore del Premio Michetti Giovani 2024, l’artista visivo Danilo Sciorilli, classe 1992, è nato ad Atessa ma risiede da anni a Torino, dove vive e lavora. Celebre per la sua personale a Milano per la Fondazione Stelline “Distanze comoventi”, per cui è stato edito un catalogo dalla storica Casa Testori, ci racconta il suo percorso nel mondo dell’arte nell’attesa di vedere il suo prossimo progetto durante la prestigiosa Fiera Internazionale d’Arte Contemporanea Artissima a Torino.

Negli anni del Liceo Scientifico scopri una grande attrazione per la fisica e per lo studio dello spazio cosmico, prosegui il tuo percorso di studi all’Accademia delle Belle Arti di Urbino. Quando e come nasce la tua esigenza di esprimerti a livello artistico, quali sono le tue prime opere?
Dopo il liceo ero abbastanza indeciso su cosa fare. Mi ero appassionato alla storia della filosofia, mi piaceva l’astronomia, ho sempre amato il disegno. Visitando l’Accademia di Urbino mi sono subito innamorato dell’ambiente, bello e intimo, e ho deciso di iscrivermi lì. Penso sia sempre stata una mia esigenza quella di esprimermi attraverso l’arte e quando ho trovato la mia strada sono cambiato molto riuscendo ad aprirmi al mondo. È stato un percorso lungo e faticoso durato tre anni e mezzo. Ho cominciato a disegnare poi a dipingere, dipingere, dipingere, ma mi sembrava di non andare da nessuna parte. Ho quindi iniziato a sottrarre sempre più cose dai dipinti: il soggetto, lo sfondo, i colori, il disegno preparatorio. Nel mio piccolo studio diventava tutto troppo bianco, avevo persino oscurato la finestra. Ero arrivato al bianco totale, a una specie di nulla dove ho attraversato un periodo di crisi di fronte a questa nuova realtà. Ho capito che quel bianco non era la fine ma l’inizio, la possibilità di ricominciare. Da qui è nata la mia prima opera “Gimme fuel, gimme fire”, un’installazione dove c’è una videoanimazione con un’ombra proiettata all’interno di una bottiglia. Ci sono io dentro la bottiglia con un liquido che mi brucia: prendo fuoco, cado e poi mi rialzo in una sequenza in loop. Una fine senza fine, una continua morte dove non muori mai. Quello penso sia stato il via per tutta la mia produzione, l’inizio di un me diverso.

Tra le tue creazioni ci sono videoanimazioni, disegni, installazioni. C’è un’altra disciplina artistica che vorresti esplorare, l’uso di materiali e supporti diversi?
Io credo che l’artista pensi. Viviamo una realtà in cui si crede che chi pensa non faccia nulla. Pensare vuol dire l’opposto. Le formalizzazioni sono importanti ma sono dettate anche dalla situazione. Di base sono un disegnatore, intendo il disegno come atto di creazione primaria. Quando mi approccio a dimensioni più scultoree, e mi è capitato, o a performance, che ho progettato e che non sono ancora riuscito a realizzare, c’è sempre il disegno. Disegno sempre tutto e scrivo. Quindi anche la scultura, dovessi affrontarla se mi venisse richiesto, la intravedo sempre prima come un disegno. Poi mi rivolgerei all’artigiano e man mano gli chiederei di apportare le varie modifiche per ottenere l’opera. Mi è capitato di lavorare a qualcosa che non ho potuto fare io materialmente, l’ho approcciata sempre con il disegno. Non la vedo come un voler sperimentare qualcosa di diverso. Per me l’idea è tutto quindi idea, pensiero, una prima formalizzazione con il disegno come atto primario. E poi l’evoluzione.

Sei co-fondatore, insieme a Marco Bacoli, Gilia Cotterli e Claudio Zorzi, di una realtà no-profit artistico-curatoriale multimediale, ViaGuilli37, a Torino. Il vostro lavoro di ricerca è testimoniato dalla rivista aperiodica “Zuper”. Di cosa si tratta e di cosa si occupa questa realtà?
ViaGulli37 è stato un progetto molto divertente, uno spazio indipendente nato da una nostra presa di posizione di far esporre sempre altri artisti senza mai promuovere noi stessi, in vena polemica gli usi comuni di questi luoghi dove giovani artisti espongono se stessi a vicenda prendendosi uno spazio insieme e in autonomia e quindi anche visibilità. Questa dinamica non ci piaceva perché si tendeva a creare piccoli circoli in cui si facevano applausi a vicenda. Il progetto si è poi concluso perchè Marco e Claudio si sono dovuti allontanare per esigenze personali. Rimane Zuper, nato con un’inquadratura standard e con l’idea politica di riconoscere un artista. Invitiamo un artista a prendersi l’impegno di invitare a sua volta un altro artista con lo scopo di realizzare un dialogo a due. Questo per l’importanza sociale e politica di definire un altro artista con un atto di nomina. Nato come una rivista standard è diventato un contenitore dove l’artista fa ciò che vuole. Noi mettiamo la copertina, la pubblicazione di cento copie e la parte digitale diventata un freepress. E’ un modo per gli artisti per riuscire a esprimersi e a realizzare anche lavori mai riusciti.

C’è un fil rouge che emerge in filigrana dai tuoi lavori e che individueresti nelle tue opere oppure le tematiche che scegli di indagare mutano lavoro dopo lavoro insieme a te?
Sicuramente c’è un’evoluzione, le tematiche mutano con gli interessi. Io lavoro su due fronti: il primo è quello esistenzialista, nato con la morte e con la mia volontà di voler affrontare questo tema, per cui le opere prendono la loro piega, diventano motivo di riflettere su questa grande tematica scandagliando il tempo, il corpo, la vita, l’immortalità, la speranza. L’altro grande tema su cui lavoro è la critica al sistema dell’arte inteso come la serie di organismi che trae un profitto economico dall’arte quindi spazi, musei, chi riesce a creare una domanda di mercato. E’ un sistema che secondo me non funziona più e ha allontanato l’arte dalle persone perdendo totalmente di senso. Io sono convinto che l’arte debba essere riportata nella realtà. Ho sempre fatto progetti in cui le persone vedevano arte senza pensare che quella fosse arte. Ne sono un esempio i miei disegni che riproducevano cartelli pubblicitari veicolati su camion vela a Torino, oppure una mostra realizzata in una fiera del settore funebre o in un cinema, tutti ambienti che non avevano a che fare con l’arte.

Chi sono i tuoi Maestri, i giganti per dirla alla Newton, sulle cui spalle ti sei arrampicato “per vedere più lontano”? Letteratura, arte, musica, incontri personali…
Il mio primo “amore” è stato Andrea Mastrovito, artista bergamasco che lavora tra Bergamo e New York, di cui sono stato assistente per un breve periodo, siamo diventati amici e mi ha aperto un mondo in opposizione all’idea di arte che mi era stato inculcato in Accademia. Grazie a lui mi sono liberato. E poi il pescarese Matteo Fato, docente all’Accademia di Urbino. Mi ha aiutato tantissimo con la creazione dell’opera, sul riflettere. Cito anche Giuseppe Stampone, che mi ha dato una visione molto concreta e realistica su ciò che voleva dire essere un artista professionista. E poi ci sono i padri putativi che per me sono Gino De Dominicis, che ritengo uno degli artisti italiani tra i più bravi che siano mai esistiti, per il suo modo di intendere l’arte, ma anche il belga Jan Fabre, per la poesia e la leggerezza che ha saputo restituire a concetti molto pregni e grevi, ancora in vita ma già storicizzato alla sua giovane età. Tanti Maestri li ho incontrati nella musica, altra mia grande passione. Sono forgiato nel metallo in un certo senso, quindi primo fra tutti il metal, da ragazzino ho suonato la chitarra e poi Lucio Battisti. Mi piace anche il teatro di Beckett. E poi amo la filosofia, leggo tanta saggistica e apprezzo Heidegger, Schopenhauer, Nietzsche.

Hai vinto il Premio Michetti Giovani 2024 con l’installazione ‘The Showreally’. Cosa significa per te aver ricevuto un riconoscimento così prestigioso dalla tua terra nativa?
E’ bello sempre quando si vince un premio e quando ti invitano a una mostra perché ti riconoscono come artista. Io non posso dire che sono un artista, devono dirlo gli altri. Io provo a fare arte. Ricevere questo riconoscimento in casa è stato davvero bello ed è difficile descrivere l’emozione di vedere lì la mia famiglia e di essere accostato ad Artisti incredibili, dei veri Maestri. E’ stato molto emozionante ancor di più perché non me l’aspettavo, soprattutto per l’opera che portavo, che critica aspramente tutto il sistema ed è una sorta di dissing contro cosa è l’arte oggi. Sono molto contento che sia stato capito il lavoro. E’ un bel segnale perché penso che ci siano diverse persone che la pensano come me e quindi ho fiducia che il sistema dell’arte contemporanea possa cambiare. Ritengo che sia piena di lavori molto validi e come diceva De Dominicis “non basta prendere qualcosa e metterla in un museo per dire che è arte”.

Qual è il tuo itinerario d’arte del cuore in Abruzzo? Aiutaci a tracciare la tua personale mappa dell’Abruzzo artistico in 5 punti.
In Abruzzo ci sono molti progetti che hanno valore artistico. Innanzitutto la Straperetana, organizzata a Pereto dalla galleria Monitor con sede a Roma, Lisbona e Pereto appunto. Si tratta di un appuntamento interessantissimo, che inizialmente coinvolgeva tutto il borgo e che ora è passato a una dimensione diversa, più legata all’interno della bellissima galleria. C’è poi il Museo Michetti, purtroppo frequentato quasi solo esclusivamente all’opening del Premio. Oggi Il Direttore sta facendo un grande lavoro per coinvolgere collaboratori competenti e rilanciare il Premio nonostante le difficoltà. Merita una menzione la Galleria Vistamare di Pescara con tantissimi artisti interessanti. Nella mia Atessa c’è il pregevolissimo Museo Sassu, molto sottovalutato soprattutto in questi anni in cui Sassu viene riscoperto e rivalutato in ottica positiva, sento che si sta creando tanto interesse per il suo lavoro. Assolutamente da visitare. Infine molto importante è ARTEPARCO, progetto di Paride Vitale che si svolge all’interno del Parco Nazionale d’Abruzzo, dove vengono invitati artisti di grande valore.

Lessico abruzzese. Qual è, se esiste, una parola o un modo di dire che ti porti nel cuore? E 3 parole per definire la tua terra…
Non so se è un modo dire ma mia nonna quando si arrabbiava diceva sempre Siaspers’, che tu possa perderti, una sorta di maledizione molto poetica. Mi ha sempre ispirato molto e prima o poi farò un lavoro con questo titolo. E’ difficile trovare le parole giuste quando c’è di mezzo l’emotività e dopo tanti anni che non sono più a casa mi vengono in mente solo termini legati a quell’affetto, all’andare via portandosi qualcosa dentro come la Majella che ha all’interno la magia della dea Maja, la dolcezza delle nostre terre e anche il colore. Penso che l’Abruzzo sia molto colorato a differenza di tanti altri posti che ho visitato.

A cosa stai lavorando, cosa ti interessa in questo periodo, quali progetti hai in cantiere?
Sto lavorando a tre progetti: un’opera che si compone di 121 disegni a grafite di varie dimensioni, che ha a che fare con l’idea di corpo e di come all’interno del tempo questo ci richiede molti sacrifici, che però sono anche forza creatrice quindi distruzione e creazione. Sto poi lavorando su una personale che farò a novembre per Artissima. Posso dire che sarà un progetto importante, arrivato a questa età e maturità, e diverso da tutti quelli fatti prima. Avrà un taglio molto schierato politicamente, sarà una grossa presa di posizione. E’ un qualcosa che mi sento di fare in questo momento, che può essere controproducente, ma per me importante. Il terzo progetto è invece una mostra personale che avrò a metà gennaio. Sarà molto intima, sulla dimensione umana, che cerca di raccontare cos’è l’uomo dal mio punto di vista.

Hai un sogno nel cassetto legato al nostro territorio, qualcosa che ti piacerebbe realizzare, un ospite da invitare, una visione da condividere o uno spunto per la crescita culturale della nostra comunità?
Difficile da dire, ma mi auspico di riuscire a ridare vita a Fuori Uso, che purtroppo non esiste più per mancanza di fondi ed è stato fondato dallo storico gallerista pescarese Cesare Manzo, che oggi non c’è più. Magari per qualcuno è superato, ma ha visto grandi curatori come Giacinto di Pietrantonio, che ha portato in Abruzzo i più grandi artisti del mondo. Accorrevano da tutto il mondo per visitarla. Ogni anno si sceglieva un luogo invisibile della città e si rimetteva appunto in uso. Ho avuto la fortuna di partecipare all’ultima edizione del 2016. Era una bellissima festa, con grandissimo pubblico, una bella convivialità, bei dialoghi.

Chi è Danilo Sciorilli oggi e come si vede tra 10 anni?
Sono una persona che si diverte perché penso che avere la possibilità di fare arte sia qualcosa di stupendo. A volte è anche un sacrificio mio e molto di più delle persone che mi sono vicine, della mia compagna e della mia famiglia che mi ha sempre sostenuto ma che vive forse la rinuncia più grande. Sono un docente, ho scelto di non scendere a compromessi con l’opera perché il mio fine non è quello di venderla, anche se non nego che mi piacerebbe. Sono contento di fare il docente e di non vivere di arte per tenere vivo l’approccio con la realtà. In più è una cosa che mi piace fare. Tra 10 anni…bella domanda, quando avevo 20 anni pensavo che entro 10 anni avrei avuto una galleria vivendo della mia arte. Ho capito poi che questi obiettivi non sono più importanti per me. Ma con il passare degli anni spero di essere riuscito a fare una mostra in più, di avere la possibilità di raccontare ancora e di far ascoltare la mia voce. “La vita e una ventura” è il titolo di un’opera del 2019 che ho tratto da una frase scritta male da mia nonna. La vita può essere una scommessa, come quando fai il gioco delle biglie, che ho voluto introdurre in quel lavoro. Mi hanno colpito molto due reazioni diverse all’opening della mostra: un uomo ha forzato il gioco delle biglie, arrabbiato con il destino, una ragazza ha pianto e mi ha ringraziato. Questa è la cosa bella del fare arte. Proverò a fare arte fino a quando sarà divertente, che poi è fino a che respiro…

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