Ciao, mi chiamo Fulvius e vivo a Pompeii, insieme alla mia mamma e al mio papà, al terzo piano di un’insula. Corre l’anno 832 dopo la fondazione di Roma e io ho da poco compiuto sette anni.
È una normale giornata d’ottobre e, come ogni giorno, al mio risveglio la mamma prepara il jentaculum, il pasto più importante della giornata, e papà mi insegna cose nuove per prepararmi al futuro. Dopo le lezioni, esco fuori a giocare con i miei amici; di solito giochiamo a mosca cieca, e ci divertiamo sempre: Flavius, uno dei miei amici, è sempre scelto dalla sorte per bendarsi gli occhi. A volte giochiamo anche a palla con degli stracci. All’ora del prandium torno nell’insula e mia madre cucina. Subito dopo vado di nuovo a giocare con i miei amici. Quando si fa tardi, mia madre mi chiama per la coena e dopo vado a dormire.
Spero che da grande diventerò come il mio papà, grande e forte, sempre pronto ad aiutare l’esercito, e sempre vincente.
È già da un po’ di tempo che qui e nei dintorni i terremoti sono sempre più frequenti, ma l’imperatore Vespasianus Augustus viene spesso a Pompeii a tranquillizzare la città e a soccorrere i feriti, ricostruendo, quando necessario, anche gli edifici.
Oggi, come tutti gli altri giorni, mia mamma prepara il jentaculum, mio padre mi dà lezioni mattutine, e poi esco a giocare con i miei amici. All’ora di prandium torno nell’insula.
Mentre la mamma sta cucinando, come al solito, pane e pesce, con aggiunta di vino per papà, sentiamo un boato provenire da fuori, così ci affacciamo per capire cosa sia. Noto che moltissime persone si sono affacciate per lo stesso motivo, tutte preoccupate quanto i miei genitori. In pochissimo tempo, meno di quello che mi sarebbe servito per capire cosa stesse succedendo, vedo il Vesuvius cacciare fuori tantissime rocce quasi arancioni, che emanano un calore molto intenso sulla nostra città, e anche oltre. Sento sempre più caldo, i miei genitori gridano di uscire dall’insula, solo che non mi sento più le gambe: nonostante i miei sforzi, il mio corpo non riesce a muoversi. Mamma e papà continuano a gridare, ma io non riesco più a sentirli; le mie palpebre non riescono più a restare aperte, e alla fine si chiudono. Non sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei visto la mia casa, vuota, ma per me il posto più bello del mondo. Nel momento in cui mi accascio a terra, vedo tutta la mia vita scorrermi davanti, breve, ma ricca di momenti felici. Appena mia madre mi vede non ci pensa due volte: subito corre ad abbracciarmi, cosciente del fatto che non ci sarebbe stato modo di salvarsi. Anche papà corre da me e mi abbraccia. Loro potrebbero anche riuscire a salvarsi, forse, ma considerano la mia vita più importante della propria.
Marco Zappalorto, classe 1^A, Scuola secondaria di primo grado “Vicentini – Della Porta”